Cogliamo l’occasione per augurare a tutti un sereno Natale proponendovi un racconto molto introspettivo di Gianni Turino.
La mia «cultura» è legata al villaggio, al rione
Perché preferisco Gesù Bambino
La tradizione del Gesù Bambino è, non solo attesa di regali
di Gianni Turino
Confesso che non amo «Babbo Natale» e l’«Albero», al di là del senso di festa che dà sempre la «luminaria», mi lascia indifferente. La mia «cultura» è legata al villaggio, al rione; al magnano Leporati che ferra il cavallo con il fido Gildu che gira, fino ad arroventarla, la forgia; con l’Ercole, il macellaio, fermo – la pancia deborda sul marciapiede – sulla porta del negozio; si frega soddisfatto le mani. mentre osserva la neve scendere a grossi fiocchi ed ha già coperto lose e pietre del Ronzone; è tutta manna per lui perché, di lì a poco – accalappiati noi bambini – si farà riempire la «tampa» sotterranea di neve, che pressata e sistemata a nicchie, gli servirà nell’estate come ghiacciaia per la carne. C’è la Gin che stende i panni lungo la spiarda del canale e mia nonna Linda e la Marieta con la fascina di «gore», raccolte nel bosco di Cavagna, sulle spalle; il falegname Dusio pialla nel suo bugigattolo fino a sera tarda illuminato da una lampada venticinque candele; lungo il Rotondino, dalla parte del canaletto che scorre imponente come un acquedotto romano prima di incunearsi con serpentina tortuosa, fra campi e vigne, svolazzano oche e anatre…
Questa è l’immagine che evoca il Presepe.
Babbo Natale, con il pullulare in dosi d’urfo in ogni angolo, in ogni anfratto in ogni TV, di tute rosse, barbe bianche e sacchi pieni di pacchi e pacchetti inutili mi sembra il simbolo del futile; una carnevalata che non serve nemmeno – contrariamente al carnevale (semel in anno) – a divertire.
Gesù Bambino è – o per lo meno era – invece, attesa di mistero, di un qualcosa di impalpabile coltivato – come tutte le cose veramente importanti che danno un senso alla vita, a cominciare dall’Amore – in silenzio nel cuore.
La cultura del Gesù Bambino è, non solo attesa di regali (per anni la mattina del Natale, vicino al letto, ho trovato un orsettino bianco che spariva nella notte di Santo Stefano per ricomparire – sempre lo stesso – il Natale successivo), ma essenzialmente «Speranza».
È la Speranza, oggi, la grande assente; anche come «ultima dea».
L’altro giorno una donna una mamma che ha sentito germogliare nel suo ventre quella vita di cui – una volta sbocciata – ha gioito o penato per le risa ed i pianti, ha annegato il figlioletto perché temeva che il suo futuro, condizionato da una piccola menomazione, non fosse «all’onor del mondo»…
Intendendo, per «onor del mondo»: il bello, il forte, i quattrini, tutti quegli ingredienti che determinano l’unica cosa che oggi pare contare: il successo. Come se vivere la vita di tutti i giorni con le sue magagne, le sue pene, i suoi tormenti ma anche con le sue gioie, le sue attese, i suoi sogni, non fosse già di per se stesso un successo.
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Ricordo una delle prime lettere che prima di Natale ci facevano scrivere a Gesù Bambino (mia nonna rammendava antiche calze alla luce, ed al tepore, del lamino; mia mamma rullava sulla macchina per cucire.). Scrivevo e cancellavo; ma soprattutto rosicchiavo la penna.
«Non riesci a scriverla, la lettera Bambino?…» mi chiede mio nonno Centin cessando di tamburellare sul tavolo al ritmo di: “Piemontesina bella” «… Il maestro Cattaneo non ti ha dato Suggerimenti?…». «Sì. Ha detto che – nello scriver – a – dobbiamo pensare soprattutto i chi ha meno di noi…», «Cuntacc – esclamò mio nonno grattandosi la testa – cuntacc!… questo è proprio un tema difficile…».
Oggi saprei cosa scrivere in quella lettera: «Caro, Gesù Bambino, riporta nelle nostre zucche, ma soprattutto nei nostri cuori, il senso vero dell’esistenza per cui l’uomo sia considerato non per quello che ha ma per quello che è: un essere unico ed irripetibile la cui vita vale sempre la pena di essere vissuta; e che la vita torni ad essere quello che in ogni caso sempre è: un dono d’amore da ricevere e da spargere…».