Quel giorno, 10 giugno 1949, era un giorno speciale; speciale per tante cose, ma soprattutto perché era un venerdì: il secondo venerdì del mese.
Il secondo venerdì del mese era il giorno del bucato e gli uomini al Betulin, anziché sedersi contro il muro ai lati dell’ingresso, spostavano il tavolino con bicchieri e bottiglie accanto alla potabile sotto alla targa del Rotondino.
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In realtà il Rotondino vero iniziava cinquanta metri più avanti, dopo i binari del tranvai e la prima casa utile era quella del guardiacanale a sinistra subito dopo il ponte sul Canale Lanza; ma la targa era lì, sul muro del Betulin, sopra alla potabile, proprio al filo di via XX settembre. Questa potabile era un bel stelo in ghisa che si alzava da una vasca semicircolare- pure in ghisa- sormontata da una griglia per potervi posare i secchielli; il rubinetto era di ottone; ma era un rubinetto particolare, cioè a pressione; per spillare l’acqua, lo dovevi premere, poi, se volevi bere, dovevi avere ben cura di non appoggiarvi la bocca, se no, la sera, avevi la bucara. Serviva, la potabile, anche per spruzzare le ragazze: con una mano schiacciavi il bottone e l’altra la premevi a palma aperta contro il foro da cui scendeva l’acqua che, così compressa, schizzava polverizzata molto lontano; le ragazze venivano irrorate e squittivano come rondini dal nido, e dicevano, ma più che altro gorgheggiavano, “cretino…” allungando la “o” finale come nei minuetti del ‘700; ma non facevano nulla per togliersi dal raggio di innaffiamento…anzi…; chi ne era esclusa – chiaramente per scelta del…”pompiere”…- restava avvilita, mortificata come un cane bastonato con gli occhi da pesce bollito piene di lacrime mal represse e quatta quatta, scivolando contro i muri, se ne andava…
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La potabile serviva anche per sciacquare le bottiglie che poi venivano lasciate capovolte per almeno un giorno perché asciugassero perfettamente; in ogni caso – abbundandis abbundandum, diceva Totò – erano ancora purificate da eventuali tracce di acqua, prima dell’imbottigliamento, con mezzo bicchiere di vino che veniva passato, sempre lo stesso, da una bottiglia all’altra ed utilizzato poi per l’ultimo rabbocco. Ma serviva innanzi tutto, la potabile, all’Erminia ed al Secondo.
L’Erminia ed il Secondo gestivano la latteria , sempre sull’angolo Via XX Settembre – Rotondino, ma dal lato opposto rispetto al Betulin che era – volgendo le spalle al Po – a destra mentre l’Erminia a sinistra.
Tutte le mattine all’alba la latteria veniva fornita dal Consorzio, di un grosso bidone di latte; Vigino ippotrasporti scaricava il bidone dal carro e lo depositava – previo scrupoloso controllo del Secondo (“Son capaci di bersene anche mezzo bicchiere…- diceva scuotendo il capo – e mezzo bicchiere oggi, mezzo bicchiere domani, si fanno fiumi…”) – ai piedi della latteria; quindi caricava quello vuoto.
Tutti le mattine il Consorzio forniva un bidone di latte, ma durante il giorno l’Erminia ed il Secondo ne vendevano due. Questo era possibile perché entrava in gioco la potabile con la quale l’Erminia ed il Secondo riempivano a metà il bidone vuoto che poi veniva colmato con il latte; mentre l’altro, rimasto a metà di latte, veniva colmato con l’acqua della potabile “perché – spiegavano – quello del Consorzio è un latte molto grasso, ed il latte molto grasso fa male, fa venire le croste…” (Ho sempre pensato che Gesù, per la moltiplicazione dei pani e dei pesci, si sia fatto aiutare dall’Erminia e dal Secondo…) …I quali avevano anche un’altra specialità: il gelato galleggiante…
Nel senso che erano gli unici al mondo che confezionavano il gelato praticamente senza posarlo sul cono ma facendovelo galleggiare sopra (“…quello che penetra nel cono non lo vede nessuno e perciò è sprecato…”).
Rigorosamente monogusto – costava dieci lire ed era “piazzato” con tale leggerezza che il cono, più che altro, aveva funzioni di sostegno morale. La porzione era minima, praticamente rappresentativa, poi, quando l’Erminia od il Secondo già avevano allungato il braccio per consegnare il cono, lo ritraevano e con la paletta ne toglievano ancora un pluc…
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Il secondo venerdì del mese, gli uomini spostavano i tavolini accanto alla potabile in maniera di essere perpendicolari a via dei Mulini… Dove, un po’ prima della draga, scorreva una deviazione del Po, su un letto di ghiaia che ne purificava l’acqua; ai bordi erano state costruiti degli scivoli in cemento su cui le donne appoggiavano i panni da lavare. Gli uomini, tutti con la schiena rivolta al Rotondino, si stravaccavano sulle sedie con il mezzo toscano in bocca che alternavano con il bicchiere di vino – il Cin aveva buona cura di non lasciarli mai vuoti – ma l’occhio ben fisso alle lavandaie che, chine sui sostegni in cemento, lavavano e cantavano.
Ogni tanto gli uomini si guardavano ed, atteggiando la bocca con una smorfia di grande ammirazione, facevano ampi gesti rotatori con il braccio. “Non c’è panorama al mondo meglio di questo…” commentava il Jin; e gli altri, deglutendo, annuivano.
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“Lo dice anche Brecht…” – azzardò un giorno il prufesur.
Il prufesur veniva da fuori, non si sa bene da dove; era sbucato al Ronzone nei momenti balordi dopo l’otto settembre del ’43.
Doveva aver fatto le scuole alte perché era in divisa da ufficiale; ma quelli erano giorni che era meglio, in quei panni, non circolare.
Era stato nascosto per un certo periodo in casa della Carmelina la plisera – donna avvenente, non sposata – e le malelingue avevano potuto spettegolare a josa. Poi l’aria si era fatta pesante ed una notte l’Ernesta la Ciapatela (era sposata al Caldu e non era avvenente, ma anche in questa occasione le malelingue ebbero il loro daffare) l’accompagnò dal Jin che in barca lo traghettò sull’isolotto del Po di fronte alla draga dove lavorò, nella cascina che lì vi era dal 1400 – fu poi spazzata via da una piena del Po quando l’ansa della Canottieri venne interrata per creare campi da tennis, giardini e parcheggi – fino al termine della guerra come contadino, (era straordinario – dicevano – a governare le vacche e a lavorare il latte). Passata la buriana, aveva insegnato per un certo periodo all’avviamento di Casale; ma poi era tornato alla campagna sia perché quel tipo di lavoro l’aveva sedotto, ma soprattutto perché certe esperienze della vita – di cui mai aveva parlato e su cui nessuno al Ronzone gli aveva chiesto nulla, anche se si intuivano (sull’anulare sinistro, aveva osservato il Brucletta, c’è il segno di una “vera”) – l’avevano reso un po’ misantropo; l’unico rapporto esterno, era quello che si riservava al Betulin
“Chi?…” domandò il Belcù. “Brecth; dice che quello è il capolavoro che il padreterno ha creato in un momento di grazia maestosa…”.“E’ uno che sa colorare bene il pane… – commentò il Jin, – … però non lo conosco…; qui nessuno lo conosce…” , aggiunse interpretando gli sguardi degli altri. “Deve essere uno di via, delle parti del prufesur… – gli bisbigliò nell’orecchio il Narg’lon. “Certo – intervenne il Cichin Bagian – ammesso e non concesso che il padreterno ci sia, questo… questa cosa…quella cosa lì… è davvero un capolavoro…”.
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Quel 10 giugno era importante…”…Perché – ricordava il Jin con voce accorata -“nove anni fa, proprio come oggi , era un lunedì ed i barbieri erano chiusi, il biucon… il biucon a Roma aveva fatto la sua più grossa…”
“Lascia perdere Jin – disse il Gambavuecca che di guerre si era fatta anche la prima – non dobbiamo più pensarci se vogliamo continuare a vivere… L’altra, almeno, l’avevamo vinta…”
“Vinta o persa, la guerra è una porcata; è la fine dell’uomo perché l’uomo è nato per vivere…ed anche quando salvi la pelle, è come se fossi morto, perché hai dovuto uccidere, hai dovuto violentare la natura… e più ne uccidi e più ti coprono di medaglie…”
Il Jin, senza togliersi il mezzo toscano che gli spenzolava dalle labbra, strinse la bocca e fece schizzare uno sputo che centrò con precisione la sputacchiera di maiolica piazzata, a tre metri di distanza, sull’ingresso del Betulin: Qualcuno storcerà il naso, ma un tempo, le sputacchiere di maiolica, con la segatura sparsa sul fondo, erano piazzate un po’ dappertutto: nelle osterie, nei caffè, nelle anticamere dei medici, nelle corsie degli ospedali, nei negozi da barbiere…; e centrarla da tre metri era comunque un exploit… da artista.
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“Questo è per il biucon …” disse…”…Non fosse mai nato…”
“Vedi Giuanin – aggiunse battendomi la mano sulla spalla; aveva una mano sola, ma era grande come un badile ed anche quando conteneva lo slancio, una sua manata ti piegava in due – Vedi Giuanin…, tuo padre quel giorno era già stato richiamato; erano mesi che era stato richiamato…tuo padre era un barbiere eccezionale, una mano che nemmeno la sentivi… si era sposato da poco, tua mamma quel giorno era a casa mia, a sentire la radio; l’avevo fatta sedere sulla turca perché tu già le avevi gonfiato il pancione…; quando alla radio quei cretini di Roma gridarono “… e vinceremo…” tua madre si aggrappò al mio braccio: Jin disse, ed ora che succede? Non dimenticherò mai quegli occhioni giovani pieni di speranza e di terrore… ”cosa succederà Jin…? E quegli occhioni che sembravano castagne d’India, presero a luccicare…”che succederà?… Io diedi un calcio alla porta e mi misi a sacramentare…poi buttai giù mezza bottiglia di barbera e poi dissi, vedrai che finirà tutto in fretta e tutto tornerà come prima…Ma gli occhi di tua madre erano allagati, sembravano ormai la bulla della Pastrona… Perchè, Jin, succedono queste cose?…E noi che faremo?… senza di …senza di lui…Hai capito Giuanin : noi, cioè tu, che eri nella sua pancia, e lei…; ma come fa qualcuno a credere che ci sia il padreterno se poi succedono queste cose… se nascono gente come il biucon ed il barbisin…! Tuo padre alla fine, dopo sei anni, è tornato…anche se è malandato e deve ricominciare tutto da capo; ma quanti non sono tornati, quanti “ma che faremo?… sono rimasti senza risposta…!?!… Nove anni fa, come oggi… la guerra… era un lunedì e la gente a Roma applaudiva…”.
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Quel 10 giugno 1949 era un giorno diverso da tutti gli altri perché, sulle Alpi si correva la tappa decisiva del Giro d’Italia. E gli uomini, nonostante le lavandaie fossero regolarmente al loro posto, non si erano spostati per osservare quei… “capolavori”…
Avevano piazzato le sedie sul marciapiede del Betulin a semicerchio attorno al tavolino su cui occhieggiava l’occhio magico della grossa radio “Everest” a cinque valvole sintonizzata sulla rete azzurra del RAI, Radio audizioni italiane, che era “in attesa di collegarsi… con i nostri inviati Sergio Giubilo e Mario Ferretti per le ultime notizie sulla diciassettesima tappa, Cuneo-Pinerolo, del trentaduesimo giro ciclistico d’Italia…”.
In quel momento la radio trasmetteva musica; ogni tanto la musica si interrompeva. “Ai summa… citu!…”, gridava qualcuno.
“Nell’attesa di collegarci… – gracchiava ingenerosa la radio – continuiamo a trasmettere musica leggera…”. “Ma va a dar via i ciap!…”, esclamò il Bandur, mentre il Tirlunsu, scuotendo il capo e riempiendosi il bicchiere di vino, mormorava: “Quando c’era il Duce, queste cose non succedevano…”.
La musica era bella; Achille Togliani sussurrava “La signora di trent’anni fa”, malinconica nostalgia di un amore casto che il tempo non aveva sradicato dal cuore; con Togliani si alternava l’orchestra di Pippo Barzizza con i suoi cantanti. “In gamba, questo Barzizza!…” commentò il Brucletta.
“Altroché se è in gamba – intervenne il Suclon – ha una figlia che è un gran bel pezzo…”. Ma il Jin lo fulminò con lo sguardo. “Alt, nebbia! – intimò battendomi la mano sulla spalla – … qui attorno c’è nebbia…”. “Già, nebbia!… Ha un gran bel pezzo… un gran bel pezzo – continuò il Suclon – un gran bel pezzo di fi glia: Isa; Isa Barzizza, la subret…”.
Di colpo la radio troncò Clara Jaione che stava cantando, accompagnata dai commenti salaci del Belcu che dava di gomito all’aria, “Viva i pompieri di Viggiù / che quando passano/ i cuori infiammano…” ma che soprattutto pompavano “su e giù…” mentre i cuori infiammati delle donzelle gridano “Viva le pompe dei pompieri di Viggiù…”.
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“Ci colleghiamo con… per le ultime notizie sul Giro d’Italia…”. Calò, pesante come il piombo, un silenzio assordante gravido di attesa e di speranza…
“Citu!… ”, intimò imperioso qualcuno, aggiungendo come chiosa quel marcato sibilo delle labbra che è l’invito sonoro a chiudere la bocca. Ma nessuno parlava…; i cuori battevano forte, nessuno pensava alle lavandaie ed al panorama più bello del mondo e nemmeno ai misticafù latteacqua del Secondo e dell’Erminia…; e nemmeno a quello che era iniziato, in quel giorno, nove anni fa. Si sarebbe sentita volare una mosca, ma in quei momenti anche le mosche erano immobili nell’attesa… “Dai nostri inviati Sergio Giubilo e Mario Ferretti…”.
L’ansia dell’attesa aveva paralizzato ogni cosa; parevano essersi fermati anche i forni delle cementerie e sembravano immobili, aggrappati al cielo ma tesi ad origliare le ultime sul “Giro”, pure i vagoncini della teleferica; le libellule non si muovevano dagli spuntoni delle canne sulle quali si erano posate e dondolavano, senza volare, sui giunchi appena scossi dal loro peso… Sul canaletto – il piccolo canale che succhiava l’acqua dal Lanza che poi scavalcava su arcate stile acquedotto romano per dipanarsi nella pianura – Spasetta Neira, appoggiandosi con il petto alla ringhiera sì da formare con il corpo quasi un angolo retto, era proteso verso il cortile dell’Australiano da cui saliva, dolce come il miele, il gracchiare di una radio, sintonizzata ovviamente sul Giro d’Italia.
Spasetta Neira era il guardiano e l’addetto alle turbine, cioè il complesso meccanismo con cui l’acqua del Canale Lanza riforniva il canaletto; lo stradinome – in realtà si chiamava Pertusati – era dovuto al fatto che – estate, inverno, piovesse o facesse sole – aveva sempre incollata sul capo una bombetta nera.
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Già, il Giro d’Italia! Bartali o Coppi?… Maglia rosa era Leoni, “Al traguardo dei tre campioni… parapunzi, punzi, pa – si cantava sull’aria dell’osteria numero 3 – primo Bartali (o Coppi) e poi Leoni / e dopo un’ora di distacco / arriva Coppi (o Bartali) fiacco fiacco, / con la sua bicicletta / che assomiglia ad una carretta…”.
Oggi il Giro correva su cinque colli: Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro, Sestriere… 254 chilometri con quasi cinquemila metri di dislivello; era il momento della verità e più nessuno cantava, forse nemmeno le cicale… “Dal colle della Maddalena…” “Citu!… – urlò ancora rompendo un silenzio di tomba, il Gambavuecca – Citu!…”.
”Il gruppo procede lentamente compatto…” era Giubilo, bartaliano, che parlava. “I primi quattro colli – commentò Pilitu – se li fanno tranquilli in gruppo, di lì nessuno si schioda; Bartali e Coppi controllano ogni cosa e nessuno può prendere il largo, nemmeno le mezze figure; la lotta sarà poi alla fine sul Sestriere… io l’ho sempre detto che i primi quattro colli non servivano a nulla…” Pilitu si autoriteneva super esperto di ciclismo per via di un suo zio che aveva corso per qualche tempo negli allievi subito dopo la Grande guerra e gli aveva lasciato in eredità una vecchia Wolsit da corsa. Pilitu pensava anche di essere culturalmente e socialmente più evoluto, perché aveva il negozio da figaro in Casale, vicino al Duomo. “Frequentato da gente come si deve – si vantava – che va alla messa di mezzogiorno e …”. “…E ha la puzza sotto il naso… – lo interrompeva il Suclon – tublan!…”.
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“…Ma ecco che dal gruppo sguscia, con scatto rapido, …è una maglia arancione… è Primo Volpi…”. “Io l’avevo detto – intervenne Pilitu – che sui primi colli avrebbero avuto spazio i gregari…”. “…Con scatto imperioso… – la voce emozionata di Mario Ferretti, coppiano, scosse la radio – un corridore, sguscia dal gruppo, lo affianca, si alza sui pedali, si risiede con il dorso arcuato, schizza in avanti, esce dal gruppo… dieci, quindici pedalate… raggiunge Volpi…, lo lascia… è solo !!!… La sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi…”.
Il Betulin esplose in un boato, solo io, ero mogio in un angolo… “…Ma la tappa è ancora lunga…”, mi consolò il Cin mentre spillava il quartino dalla botte.
“Adesso Coppi mette in riga Volpi – spiegò Pilitu – e poi ancora tutti in gruppo… come da copione…; io l’avevo detto…”. “Coppi è solo, Volpi è stato ingoiato dal gruppo, e Bartali non si muove… non si muove – gemeva Giubilo – forse ritiene quello di Coppi solo un assaggio e non vuole bruciare energie…”.
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“Certo che è solo un assaggio – intervenne Pilitu – adesso Coppi viene assorbito dal gruppo…; io l’avevo subito detto che Bartali non si sarebbe mosso…”.
“… Dal gruppo sta uscendo Gino Bartali – urla alla radio la voce concitata di Sergio Giubilo-; il grande campione toscano, alzato sui pedali e scuotendo la bicicletta alla quale imprime pedalate vigorose avanza ed è ormai solo a duecento metri da Coppi, che, seduto sulla sella, con stile impeccabile e senza mai voltarsi, pare voler continuare nella sua azione…; mancano 184 chilometri e quasi cinquemila metri di dislivello per cinque colli all’arrivo…; arrivederci al prossimo collegamento…”.
“Adesso Coppi ha i minuti contati – è Pilitu che commenta nell’indifferenza generale – Bartali in quattro e quattr’otto lo riprende e lo mette in riga… l’avevo detto io…”.
La radio riprese a trasmettere musica, ma nessuno pensava alle “…pompe dei Pompieri di Viggiù”; con la testa e con il cuore ognuno era per le rampe di quei colli, sui dirupi dove posano le aquile, lungo le discese che si precipitano impetuose, attraversando foreste ed anfiteatri desolati di ghiaie e di morene, verso valloni infernali scossi dal vento e dalla pioggia che mai nessuno aveva visto se non con la fantasia alimentata dalla prosa degli inviati: Nino Salvaneschi, Bruno Roghi, Orio Vergani, Indro Montanelli, Dino Buzzati, Giovanni Mosca, Emilio Colombo, Emilio Demartino, Carlin… A ripetere questi nomi ed a pensare alle loro cronache, scritte di getto con cannuccia e pennino intinto nel calamaio, e raffrontarle alle attuali, si rabbrividisce…
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Al Betulin, ma quel giorno era così ovunque, l’aria era gravida; pareva impastata di ricordi e speranze; ma, forse, anche di nostalgia… “Si poteva tagliarla con il coltello…”, avrebbe ricordato mio nonno Centin.
Quella gente – lo capii dopo, tanto dopo – stava vivendo qualcosa che andava molto al di là del fatto sportivo; quella corsa, quegli uomini erano una metafora della loro vita che stava rimettendosi in moto dopo le scosse, e le percosse, della guerra.
Quegli uomini erano ancorati al loro passato, ai loro sogni atrofizzati da cinque e passa anni di tragedia; forse pensavano, nel cuore, che tutto quel tempo si sarebbe neutralizzato e cancellato svanendo di fronte alla nuova realtà come neve al sole e tutto sarebbe cominciato come prima, dal
punto di prima…; si aggrappavano al sogno di una giovinezza che era invece irrimediabilmente perduta…
Di bartaliani, quel giorno al Betulin, c’ero solo io che avevo poco più di otto anni; ma in realtà anche quei coppiani sfegatati soffrivano per il vecchio Gino. Bartali era quel sogno, era la giovinezza tarpata che doveva ancora esplodere; Coppi – invece – era la realtà; la dura realtà del tempo che macina ogni cosa e che sopravvive nei ricordi, quando la vita ti ha acconsentito di accumularli… Ma in quelle vite c’era un vuoto che niente, se non quella data – 10 giugno – riusciva a colmare… Bartali e Coppi; più che due uomini, due campioni, erano due epoche, segnate dal fato.
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Alle quattro e mezza, riprese la radio. Dalle voci- malinconica e depressa quella di Sergio Giubilo ed esultante quella di Mario Ferretti, si comprese subito che le cose volgevano a favore di Coppi. Ma come? Da quando Bartali aveva lasciato il gruppo, la corsa, per 191 (centonovantuno!) chilometri era stata un duello; un duello che mi ricordava quello, appena studiato a scuola in terza elementare, fra Ettore – segnato dal fato (“giorno verrà, presago il cor mel dice, verrà giorno che Priamo e Troia e tutta la sua gente cada…” aveva appena profetizzato alla moglie Andromaca piangente…) – ed Achille, protetto da Minerva; gli altri non erano più esistiti; come tutti gli altri troiani ed achei, erano semplice sfondo incolore, opaco…
Centonovantun chilometri, su per tornanti, giù per precipizi, avvolti dalla nebbia ed, in alto, baciati dal sole: Bartali e Coppi; anzi, Coppi e Bartali. Primo sulla Maddalena, con due minuti di vantaggio che sono 4’29” sul Vars ; su per l’Izoard Bartali lotta come un leone; ma il tempo dei grandi ruggiti e dei voli è passato; Bartali pedalava duro, orgoglioso implacabile, ma come poteva lottare contro il fato e gli dei che facevano volare, come un airone, Coppi perché la legge del tempo doveva compiersi?
Sull’Izoard Coppi passa con sei minuti e 54 secondi di vantaggio; sul Monginevro Bartali recupera qualcosa, ma sono minuzie: 6’ e 46” per Coppi…” ….
La radiocronaca riprende; sul Sestriere Coppi ha 7’e 17” di vantaggio.
“Ma ora c’è la lunga discesa su Pinerolo – dice Sergio Giubilo con la voce sollevata dalla speranza (razionalmente assurda; ma l’amore non ragiona; anch’io, con il cuore che batte forte, mi associo…) – e quando la strada precipita e ci si deve giocare la vita, Bartali è ineguagliabile…”.
“Adesso Bartali riprende Coppi e lo sega in volata a Pinerolo…- sentenziò Pilitu – come io avevo previsto…”.
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Invece non è possibile sconfiggere gli dei! Come si può vincere, se il fato ha deciso che il tuo tempo è finito e l’avversario è protetto e sospinto da Minerva in persona ?..
“Il motociclista Parolfi ci porta le ultime notizie – la voce, tombale, è di Giubilo – a cinque chilometri dall’arrivo…”.
“…A cinque chilometri dall’arrivo – è Ferretti che esultante riprende la radiocroanaca – a cinque chilometri dall’arrivo… un uomo solo al comando della corsa: la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi…”.
Il Betulin , e mezza Italia , esplose in un urlo disumano, stentoreo… Coppi trionfò a Pinerolo con 11 minuti e 52 secondi di vantaggio su Bartali… Gli altri non esistevano.
Gli uomini del Betuln si abbracciavano piangendo; anch’io, mogio ed avvilito, avevo le lacrime agli occhi; compresi allora come gioia e dolore, apparentemente agli antipodi, fossero invece, nelle reazioni, così simili.
In un angolo davanti alla bottiglia quasi vuota, il Jin – coppiano irriducibile- aveva gli occhi gonfi. “Jin – gli chiesi con voce tremula – piangi perché Coppi ha vinto?”.
“No… perché ha perso Bartali”. “Il mese scorso – aggiunse- se ne è andato il Torino; oggi Bartali… tutto torna normale… Giuanin, chi andava a cavallo, torna andare a cavallo e chi andava a piedi continua ad andare a piedi… Così è la vita… la vitaccia… Viva Coppi!…”.
“L’avevo detto io che Coppi era irraggiungibile…- chiosò Pilitu – e che Bartali se le sarebbe buscate secche…; l’avevo detto”. Ma nessuno gli rispose.
Passarono le donne con il bucato; anche loro erano mogie: quel pomeriggio non erano state gratificate nemmeno da un fischio di ammirazione.
La Bertina, chiamata normalmente Pugiò (balcone) per via degli attributi anteriori prosperosi e prorompenti esibiti sempre con molta generosità, lanciò un’occhiata velenosa verso gli uomini che stavano discutendo del “Giro”.
“E così oggi, marcantoni che non siete altro, ve la siete spassata con cose più importanti… marcantoni del…”, sibilò perfida in tono di sfida scuotendo il capo sì da sventolare i lunghi capelli rossi ed inarcando contemporaneamente la schiena in maniera di dare ulteriore risalto al… balcone. Ma questa mossa della Pugiò, che in altri momenti avrebbe suscitato entusiasmi, passò completamente inosservata, e nessuno rispose alle sue parole.
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Da Pinerolo, Dino Buzzati scrisse: “Quando oggi, su per le terribili strade dell’Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell’anima e del corpo – e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando per le estreme balze del valico – allora rinacque in noi, dopo trent’anni, un sentimento mai dimenticato. Trent’anni fa, vogliamo dire, quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille…”.
** La prima Foto non è stata scattata durante la Cuneo Pinerolo. Rappresenta un passaggio della Cannes – Briancon del Tour 1948. Il corridore in testa è Luison Bobet seguito da Gino Bartali che lo sta per attaccare. A Briancon, Bartali arriverà venti minuti prima di Bobet al quale, il giorno dopo, strapperà la maglia gialla. Ho scelto questa foto, SCATTATA SULLE STESSE STRADE DELLA CUNEO – PINEROLO, per dare un’idea dei fondi stradali dell’epoca. Oggi annullano una tappa, a Roma, per qualche buca sull’asfalto.
La seconda, “ferma” Coppi solitario, sulla stessa strada della prima, nella tappa Cuneo – Pinerolo del 1949.
La Foto in Home page non è stata scattata durante la Cuneo Pinerolo. Rappresenta un passaggio della Cannes – Briancon del Tour 1948. Il corridore in testa è Luison Bobet seguito da Gino Bartali che lo sta per attaccare. A Briancon, Bartali arriverà venti minuti prima di Bobet al quale, il giorno dopo, strapperà la maglia gialla. Ho scelto questa foto, SCATTATA SULLE STESSE STRADE DELLA CUNEO – PINEROLO, per dare un’idea dei fondi stradali dell’epoca. Oggi annullano una tappa, a Roma, per qualche buca sull’asfalto.
La seconda, “ferma” Coppi solitario, sulla stessa strada della prima, nella tappa Cuneo – Pinerolo del 1949.