DI QUESTI GIORNI NEL 1951

Era piovuto per tutto ottobre e il Po era gonfiato. Il 14 novembre ruppe gli argini del Polesine in provincia di Rovigo.

Fu un’immane tragedia. Ci furono 88 vittime e migliaia di persone persero tutto – 160 mila persone furono costrette a lasciare la propria terra… per sempre.

Intanto – mentre il Suclon perdeva la sua battaglia con il PO – sulla balera del dì dla festa del Ronzone realizzata sopra le turbine di Pertusati “Spasetta Neira” cantava l’”usignolo” Oscar Carboni.

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Era cominciato a piovere il primo martedì di quell’ottobre del 1951, e pioveva ancora il sabato della festa del Ronzone.

Il Comitato promotore del festival ronzonese – comitato rionale apolitico presieduto da mio padre – aveva fatto le cose in grande e, rischiando grosso e firmando una spanna di cambiali, era riuscito ad ingaggiare per il lunedì sera niente popò di meno che lo stornellatore sommo, il cesellatore divino, l’ugola d’oro Oscar Carboni accompagnato dal pianista William Galassini dell’orchestra Angelini, maestro Cinico…» che all’epoca era il non plus ultra della musica leggera.

Un successo garantito; un’ora e mezza di canzoni annunciate fra cui «Va Serenata celeste, celeste come gli occhi di una donna, che assomiglia tanto a una Madonna…», «Qui sotto il cielo di Capri, come è bello sognar mentre mormora il mar…», «Vipera, tu sei colei che tutto ha rubato ai sogni mei…», «Signorinella pallida, dolce dirimpettaia al quinto piano…», «sogna Firenze ” sotto i raggi della luna…», e dulcis in fundo, e mai così attuale, il capolavoro di Armando Gill «Come pioveva», «C’eravamo tanto amati, / per un anno e forse più, / c’eravamo poi lasciati / non ricordo come fu / ,ma una sera c’incontrammo / per fatal combinazion / perchè insieme riparammo / dalla pioggia in un porton…»

Mamme, nonne, zie e coetanee andavano in fregola solo a leggersi il programma pensando che avrebbero visto in carne ed ossa “l’usignolo” della canzone italiana. Ma intanto pioveva; pioveva duro, intenso, incessante. Al Rotondino erano scomparse le pozzanghere perché ormai era tutto un pantano; dai cortili si alzava il profumo degli arrosti che, una tantum (ma una tantum davvero nel corso dell’anno), venivano preparati per affrontare il rito degli agnolotti. Mia “nonna Linda e la Marieta facevano volare il matterello sul tavolo sdoppiato e poco per poco, miracolosamente, si svolgeva il foglio di pasta sottile sul quale le mani delle mamme adagiavano il ripieno che, coperto da un altro foglio, formava una lunga fila di «gobbi», gli agnolotti o, appunto perché gobbi, i «disgraziati».

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Pioveva ed era una pioggia destinata a durare, i vecchi erano di servizio sulle sponde del Po che si era fatto alto e limaccioso; ma la sua corrente trasportava grossi tronchi e «seppe» e quello che trasportava il fiume era di chi lo prendeva. Si legavano con lunghe funi agli alberi della riva e poi, con stivaloni alla coscia scendevano nell’acqua armati di lunghe pertiche sulla punta delle quali era legato un robusto uncino di ferro. Cercavano di uncinare i tronchi che la corrente spingeva a valle; la piena del Po era una manna, consentiva di avere legna, sia pure verde e fradicia, da bruciare nella stufa. La lotta con la corrente era immane alla fine vinceva quasi sempre l’uomo che, inzuppato d’acqua e di freddo tornava a casa con il sogno del fuoco che quella legna avrebbe regalato alla sua famiglia; e si fregava le mani, battendo i denti, come già se le rosolasse sopra alla ghisa del tamburnin.

Pioveva ed io arrivavo a casa, il lunedì sera di Oscar Carboni, con la grammatica Alma Mater, corso di latino per le scuole medie comprata a rate nella libreria Re ed il dizionario usato Campanini Carboni.

Sul Campanini Carboni c’era, fra le altre parole, anche il verbo «Tangére»… Tango, tangis, tetigi, tactum; tangere… Toccare; ergo, tango uguale tocco, non so se mi spiego.

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Quella sera avrei fatto un figurone con la brunetta che mi mangiava con gli occhi. Io allora portavo i calzoni corti al ginocchio, mi pettinavo con la riga da una parte e l’onda tenuta assieme da una «gugietta».

Per l’occasione mio padre mi aveva comprato da Seira un paio di scarpe nuove, con la para; il mio numero di piede era il 36, ma mio padre mi aveva preso un 39 perché alla «tua età si cresce rapidi e un paio di scarpe fa prima a diventare corto che ad essere pagato». Era un ragionamento valido, ma le mie scarpe di para nuove in funzione crescenza, si alzavano in punta; mi sembrava di essere Fornasari e i miei occhi tradivano la delusione. Chissà, forse anche la brunetta si sarebbe messa a ridere nonostante il mio latino.

«Meglio far ridere che far piangere» mi consolò mia nonna Linda con quei suoi occhi grigi trasparenti, con il suo miracoloso «pucio» sulla testa; così dolce nonostante la sua vita faticosa, la sua asma; così bella e così dolce che la chiamavano la «fiù» il fiore.

Oscar Carboni cantò e fu un trionfo; esultava il cassiere nonostante la pioggia che si infilava attraverso il tendone e bagnava la pista.

Oltre all’incasso, l’organizzazione incamerò anche i quattrini dell’assicurazione che scattava dopo i duecento millimetri di pioggia «da misurarsi fra le ore venti e ventitré…»

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Ma mentre l’usignolo Oscar Carboni intonava il quinto bis di «Come pioveva» mandando in estasi mamme, nonne, zie e coetanee, qualcuno arrivò di corsa alla cassa, parlottò con il cassiere, poi il cassiere con mio padre, poi corremmo tutti verso «Via dei mulini» e fino alla draga.

Allora il Po scorreva cinquecento metri più a ridosso di Casale che non ora e sotto a Via dei Mulini iniziava una bellissima ansa che formava la darsena della Canottieri. Oggi tutto è stato coperto dal cemento e dai detriti di eternit; la Canottieri ha potuto allargare i suoi impianti ricreativi ed il Po non è più quello del 1951; è un suo lontano parente che finalmente, perse le anse, può allagare anche la città di Casale rimasta integra da sempre.

Era successo che il Suclon aveva perso la sua sfida con i grandi tronchi che volavano sulla corrente; ne aveva agganciato uno così grande che gli sarebbe bastato a lui, moglie e figli per tutto l’inverno; era felice mentre ingaggiava la lotta.

Ma era una lotta fra titani, disperata. «Suclon; molla, lascia perdere…» gli gridavano gli altri, «lascia perdere…»

Ma il Suclon non mollava; il tronco agganciato dall’uncino lo trascinava sempre più nell’acqua; prima alla coscia, poi alla vita, poi alle ascelle.

«Suclon, lascia perdere, molla… gli gridavano ne abbiamo presa noi tanta di legna; c’è n’è per tutti…»

Ma il Suclon non mollava: non sarebbe stato del Ronzone, anzi del Rotondino, se avesse rinunciato. E come si sarebbe presentato davanti ai suoi figli ed a sua moglie con la legna pescata dagli altri… ma non scherziamo… con quel tronco si sarebbero scaldati tutto l’inverno e con la corteccia avrebbero fatto la conserva d’estate…

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Quella volta vinse il fiume ed il Suclon scomparve nell’acqua col suo sogno di fuoco; ma senza mollare la presa.

Ed ora girava là, come una girandola impazzita, in mezzo al mulinello. Lo si vedeva aggrappato al tronco e la gente, da sopra la draga, gridava «Suclon…» ma il Mulinello si ingoiò in un amen tutto: Suclon e tronco. Il suo corpo, avvinghiato all’albero fu recuperato, tumefatto e gonfio, dieci giorni dopo alla diga di Valenza.

Pioveva, come pioveva! In quell’ottobre del 1951; il Polesine stava per essere sommerso dalle acque del Po e dell’alta marea.

Ed il Suclon, se ne andava, ingoiato dal mulinello, con il tepore del suo sogno, mentre moglie e figli applaudivano l’ultimo gorgheggio di Oscar Carboni.

***

«Peccato – disse qualcuno – tirando su con il naso – peccato!… proprio adesso che il Suclon doveva giocare la finale del torneo di bocce individuale e poteva anche vincerla portandosi a casa, oltre la coppa e il diploma da appendere in cucina, due salami, mezza toma di gorgonzola e un pintone di barbera di quella da dir messa… peccato.»

Già…fu un vero peccato quella piena del 1951.

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