Non a caso furono definite “Le Olimpiadi che cambiarono il mondo” quelle della diciassettesima edizione romana del 1960, le uniche per ora nella storia del nostro Paese, che tutti gli sportivi italiani auspicano possano ripetersi con il successo di allora in un prossimo futuro.
Rappresentarono per una svariatissima serie di motivi un evento unico, grandioso ed irripetibile con un C.I.O. (Comitato Olimpico Internazionale) a rappresentare nella realtà dei fatti, non soltanto sportivi ma soprattutto politici, la più grande multinazionale del mondo.
Un anno, il 1960, in piena Guerra Fredda, che era iniziato in modo a dir poco tragico per il mondo dello sport e non solo: infatti alle ore 8,45 del 2 gennaio si spegneva a quarant’anni e quattro mesi di età Fausto Coppi, il “campionissimo”, colui che, al di là degli eccezionali record e risultati sportivi, a pari merito con il grande Gino Bartali, aveva diviso in due l’Italia, quella di tutti i cittadini e non la versione molto più limitata delle tifoserie. I due grandi uomini avevano infatti realizzato nel Paese un bipartitismo perfetto, stranamente basato su quello che si potrebbe definire un rovesciamento delle immagini: Coppi etichettato (probabilmente a torto) “di sinistra” soprattutto per il fatto molto conosciuto ed irriverente della “dama bianca”, in realtà timido, introverso che si nutriva a carni bianche ed acqua, e Bartali di destra (sicuramente era molto di centro e religioso) invece molto chiassoso ed estroverso nonché forte estimatore delle carni rosse e del buon vino. Un aspetto assolutamente degno di particolare sottolineatura di carattere sociologico, come ha affermato il grande giornalista sportivo Gian Paolo Ormezzano soprattutto in raffronto stridente con i ripetuti pessimi comportamenti delle tifoserie organizzate dei giorni nostri, fu rappresentato dal fatto che mai in quindici anni di competizioni su tutte le strade d’Italia si dovette registrare neppure uno schiaffo tra esponenti delle due diverse e nutritissime fazioni.
Nell’agosto dello stesso anno, esattamente il giorno 25, nella città eterna ci fu la cerimonia di apertura della diciassettesima edizione delle Olimpiadi dell’era moderna, quattro anni dopo quelle australiane di Melbourne. Furono sicuramente giochi olimpici nei quali si contraddistinsero atleti che divennero veri e propri miti della storia dello sport ma soprattutto fu una edizione che sarebbe stata contrassegnata da una serie di avvenimenti politici e sociali assolutamente primari ed unici. Il presidente del Comitato Olimpico Internazionale Avery Brundage infatti, con il suo entourage di nobili potenti e tutt’altro che decaduti, ha rappresentato negli anni cinquanta e sessanta, nell’epoca di Kruscev, di Eisenhower e poi Kennedy e di Papa Giovanni Ventitreesimo, uno degli uomini più potenti ed influenti del mondo, mentre in Italia il Presidente della Repubblica era Giovanni Gronchi e Presidente del Comitato Organizzatore dei Giochi il promettente Giulio Andreotti. Tra di dati storico-politici di primaria grandezza di “Roma ‘60” deve essere annoverata la partecipazione per la prima volta sotto una unica bandiera della due Germanie, sino ad allora denominate Germania Federale e Germania dell’Est, siglata DDR (inno nazionale una sonata di Beethoven), pur dovendo ricordare che non più di un anno dopo sarebbe stato eretto a Berlino il fatidico Muro; ma soprattutto si doveva registrare a Roma la prima nettissima vittoria nella storia delle olimpiadi moderne della Unione Sovietica sugli Stati Uniti con 43 medaglie d’oro (15 medaglie su un totale di 16 nella ginnastica femminile!!) contro soltanto le 34 degli statunitensi, 103 medaglie in totale contro le 71 degli americani (terza assoluta l’Italia con 36 medaglie di cui 13 d’oro, 10 d’argento e 13 di bronzo), da cui la grande diatriba per la difesa ad oltranza del dilettantismo puro dall’avvento ormai alle porte del professionismo anche a livello di sport olimpico, sia quello commerciale americano e quello di stato praticato dai Paesi dell’Est. In merito famose sono rimaste le rinunce ad interpretare il personaggio di Spartacus nel film omonimo per non essere accusato di professionismo e quindi squalificato da parte della medaglia d’oro nel decatlon Rafer Johnson e la precedente squalifica dell’ostacolista Lee Calhoun per essersi fatto sponsorizzare il proprio matrimonio attraverso una trasmissione televisiva. Tra le due superpotenze anche sportive non sono mancati durante lo svolgimento della diciassettesima edizione dei Giochi casi di vero e proprio spionaggio, come quelli di Dave Sime (secondo nei cento metri piani a 30 centimetri da Harmin Hary) quasi assoldato dalla CIA per attirare negli States il campione sovietico di salto in lungo Igor Ter Ovaneshian (che fu poi medaglia di bronzo della specialità dopo Boston e Robertson) ed, al contrario, nella categoria dei massimi del sollevamento pesi, il caso di Yuri Vlasov, medaglia d’oro sovietica, che riuscì a far poi andare a Mosca lo statunitense James Bradford, medaglia d’argento. Epocale fu poi la partecipazione, in rappresentanza della Cina, di Taiwan ma sotto la denominazione portoghese di Formosa in assenza della Repubblica Popolare Cinese, che sarebbe poi rientrata nell’agone olimpico soltanto nel 1980 (ma c’era Cuba che riuscì a piazzare Figuerola al quarto posto nei 200 metri piani). Mentre in quell’anno storico, denominato anche l’anno della decolonizzazione, ben 16 Paesi africani ottennero l’indipendenza, dal 17 aprile del Togo, poi Madagascar, Congo Belga poi Zaire, Somalia, Benin, Niger, Alto Volta attuale Burkina Faso ovvero “Patria degli uomini veri”, Costa d’Avorio, Ciad, Repubblica Centro Africana, Congo, Gabon, Senegal, Mali, Nigeria per chiudere il 28 novembre con la Mauritania. Ma fu anche la prima volta della partecipazione olimpica di molti Stati come l’Iraq (21 atleti), il Libano (18 atleti), l’Afganistan (13 atleti), il Vietnam e la Corea (3 atleti), tanto da far scrivere che “è come si fossero succedute, una dietro l’altra, improvvise ventate della storia”, insegnando le Olimpiadi romane, oltre la storia, anche la geografia del mondo. Non a caso quindi fu a Roma che l’Africa vinse la sua prima medaglia d’oro della sua storia e che medaglia, quella della maratona, con il fino ad allora sconosciuto poi mitico etiope Abebe Bikila che, scalzo perché non in possesso di scarpe adeguate, stravinse la corsa di Filippide, infrangendo le strategie ed i ritmi di Zatopek, soggetto in primo piano in una scenario straordinario quali furono l’Arco di Costantino ed i Fori Imperiali coreograficamente ripresi di sera in diretta mondiale, il tutto illuminato dalle telecamere mobili della RAI, prima volta al mondo anche per questo fondamentale aspetto di comunicazione. Fu un grandioso successo mondiale di marketing turistico, unico ed irripetibile per Roma e per un’Italia in piena ripresa economica e sociale. Ma, si disse allora, l’Italia con il suo esercito venticinque anni prima non riuscì a conquistare l’Etiopia mentre un uomo solo, Abebe Bikila, che significa “fiore che cresce”, è riuscito a conquistare Roma (annotazione storica: l’obelisco di Axum, sottratto all’Etiopia, punto di riferimento di Bikila per sferrare il suo scatto vittorioso, è stato poi riportato ad Addis Abeba in data assai recente ovvero nell’anno 2007). La diciassettesima Olimpiade romana fu anche la prima volta delle donne del fondo, più propriamente del mezzofondo, poiché prima di allora non erano mai stati corsi ufficialmente gli 800 metri piani: anche i soloni del CIO infatti affermavano che era “sconveniente” vedere una atleta molto affaticata a causa dello sforzo della corsa sulle lunghe distanze. Le donne, presenti a Roma con ben 961 atlete su un totale di 5400 partecipazioni, da allora potremmo dire hanno fatto molta strada arrivando successivamente a suscitare grande interesse anche nella maratona. E poi un’altra prima volta, questa estremamente negativa: quella di un caso accertato di doping in una gara olimpica e precisamente per una morte per doping durante una competizione olimpica. Accadde che nella 100 chilometri a squadre di ciclismo, mentre la compagine italiana andava a cogliere un oro importantissimo e meritatissimo, il danese Knut Enmark Jensen sotto il sole romano, additato in un primo momento come la causa determinante, si accasciava a terra per non più riprendersi. Dopo si seppe che aveva ingerito una dose da cavallo di stimolanti.
Ed infine gli atleti, i miti che sono rimasti intatti nello svolgersi della storia dello sport, interpreti fondamentali dello sviluppo delle discipline sportive come affermazione non solo umana ma anche sociale e dei popoli: basti pensare che dopo Abebe Bikila l’Africa è stata in grado di produrre negli anni successivi atleti del calibro di Wolde, Rono, Korir, Gebresilasie, Ngugi, solo per citare i grandi del fondo; il già citato Rafer Johnson, non solo vincitore del decathlon davanti al suo grande amico e compagno di college il formosano Yang, ma soprattutto primo orgoglioso portabandiera nero della storia olimpica statunitense e poi body gard di Robert Kennedy che riuscì per primo a bloccare dopo l’omicidio del candidato alla presidenza il suo assassino Shiran Shiran; quindi la “Gazzella Nera”, ovvero Wilma Rudolph, vincitrice di 100 e 200 piani e della staffetta 4 per 100 con le altre “Tigerbelles”, un simbolo per le donne soprattutto nere che per la prima volta a Clarksville, la sua città dove nacque 20ma di 22 figli, si poterono incontrare pubblicamente con i bianchi; e ancora il tedesco Harmin Hary, primo uomo a far fermare i cronometri sul tempo, allora da fantascienza, di 10 netti sui cento metri piani, medaglia d’oro sulla distanza ma personaggio antipatico e discusso (nel 1980 ebbe tre anni di galera per truffa), certamente uno dei primi ad essere sponsorizzato da aziende commerciali, nel suo caso da Puma e Adidas, ed anche su questo tema le Olimpiadi di Roma segnarono un primato: furono sicuramente gli ultimi Giochi all’insegna e sotto la bandiera del dilettantismo originario.
E il grande, o meglio “il più grande”, il “labbro di Luisville”, Cassius Marcellus Clay, come lui diceva il suo nome da schiavo, poi Muhammad Ali, nome da uomo libero, medaglia d’oro a Roma nella categoria del pesi mediomassimi (il suo successore a Tokio fu il nostro Cosimo Pinto, nostro associato nei Veterani di Novara), atleta inarrivabile (rimarranno nella storia dello sport i suoi incontri con Joe Frazier e soprattutto il suo capolavoro di Kinshasa dove sconfisse per ko all’ottava ripresa George Foreman, in quel momento ritenuto imbattibile), ma anche grande uomo politico nel senso più puro del termine per quello che è riuscito a fare nonostante il Parkinson per i popoli neri dell’Africa e per i Musulmani (mitico fu il suo incontro con Martin Luther King). E poi altri tra gli atleti stranieri: Jolanda Balas, 1,85 nel salto in alto donne con la tecnica della “sforbiciata”, lo statunitense Al Oerter, vincitore di quattro Olimpiadi consecutive nel lancio del disco (in gara a Roma anche il mitico Adolfo Consolini, oro nel 1948 nelle Olimpiadi di Londra), Donald Brag, detto “tarzan”, oro e recordman nel salto con l’asta, l’ultima volta prima dell’avvento della aste in fiberglass che catapultarono gli uomini oltre i sei metri con il leggendario Serghey Bubka. Infine i grandi italiani: i fratelli Raimondo e Piero d’Inzeo, medaglia d’oro e di argento nel percorso ippico (una famosa storica finale tra fratelli fu quella di una precedente olimpiade tra Edoardo Mangiarotti, nostro portabandiera a Roma, Atleta del Secolo con 19 ori tra Olimpiadi e campionati mondiali e per 39 anni Presidente Nazionale dei Veterani dello Sport e successivamente Presidente Emerito, con il fratello Dario nella scherma ), poi Nino Benvenuti oro nei pesi medi, con gli altri ori del pugilato del peso piuma Musso e del massimo Franco De Piccoli, il ginnasta Franco Menichelli specializzato nel corpo libero, tra l’altro fratello del giocatore della Juventus, Fritz Dannerlein nei 200 metri a farfalla, l’oro del settebello della pallanuoto, Sante Gaiardoni oro nella velocità su pista con Beghetto e Bianchetto (stesso peso, stessa altezza) oro nel tandem; Giusi Leone, terza nei cento metri piani dietro la Rudolph e la tedesca Ayman.
E per ultimo il simbolo, l’icona di Roma 60’, ovvero il grande Livio Berruti, l’Espresso di Torino”, come veniva definito, un eroe italiano, primo italiano ad entrare in una finale olimpica nelle corse veloci ed a vincerla (suo degno erede fu poi Pietro Mennea da Barletta) con un doppio 20 secondi e 5 decimi in semifinale ed in finale, record del mondo uguagliato, ma soprattutto esempio di classe e di stile come atleta e come uomo. Le colombe bianche che si levarono nel cielo di Roma mentre Livio concludeva il rettilineo di quella sua fantastica cavalcata, abilmente riprese della Rai e entrate nella storia dello sport e non solo grazie al documentario “La Grande Olimpiade”, per la regia di Romolo Marcellini (per lui una “nomination” all’Oscar nel 1961), sono state il simbolo di speranza per un mondo che stava sostanzialmente cambiando.
foto in evidenza: Livio Berruti vince la finale dei 200 metri piani.