ACCADDE IL 29 GIUGNO DEL 1946 – IL CICHIN BELCÙ RISCHIÒ DI ESSERE INGOIATO NELL’ANSA DI CAVAGNÀ – LA MITICA GOLD STAR DEL MAESTRO FEROTTI – ALL’OSPEDALE SUL TRICICLO DELL’ETTORE DEL GIARDINET- L’ACCIDENTI AI POLMONI DEL GIOVANE FIGLIO GIGI
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“Dove sei perduto amor ?…/ sei rimasta ad aspettar/ al mulino… come allor/…tornerò…”.
L’orchestra Gold Star del maestro Ferotti, arroccata in penombra sulla conchiglia, accompagnava con suono soffuso la voce languida di Natalino Otto – celebre cantante della RAI, Radio Audizioni Italiane rete azzurra , orchestra Francesco Ferrari- ingaggiato per quella serata di gala in onore della mietitura e di San Pietro con ben trentacinque mila lire…
Più in basso, sul cemento dell’arena, le coppie strascicavano, avvinghiate, passi lenti.
Il sole aveva incendiato l’orizzonte ed era rapidamente calato dietro le ciminiere e le colline. Il cielo, inargentato dalla luna a tre quarti, in quella sera tardiva –l’ora legale prolungava la luce del giorno- di fine giugno del primo dopoguerra, era pieno di stelle che si specchiavano, stiracchiandosi sull’acqua increspata del Po; nei campi, inondati dal cricchio dei grilli, si accendevano e si spegnevano le lucciole; dalla collina si spandeva il profumo aspro e dolce del grano appena tagliato ed ancora da affastellare in covoni; dal Po e dal Canale saliva lieve una brezza impregnata del sapore del muschio…; in alto, aggrappati al cielo, galleggiavano i vagoncini della teleferica carichi di calce…; galleggiavano e dondolavano , sembravano destinati a volare fra le nuvole e le stelle…invece sarebbero finiti ingoiati dai frantoi delle cementerie…
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La voce di Natalino Otto poco per poco si spense ed al bordo della conchiglia, inquadrata
dall’ “occhio di bue”, si stagliò la figura di un giovane uomo vestito di bianco ; era piegato sulle gambe- come un portiere in attesa del rigore- ma con la schiena inarcata e soffiava , con le guance gonfie che parevano otri di cornamusa , in una strana tromba- a forma di “calumet della pace”- che teneva ben serrata fra le mani e dalla quale uscivano note struggenti.
“Dove sei…perduto amor?…” La melodia si spandeva dal saxofono del Vasin Sax e Clarin (di cognome faceva Giorcelli ma nessuno lo sapeva) piana e malinconica, galleggiava
sull’ “arena”, penetrava nei cuori che scandivano in silenzio le parole gonfie di evocazioni e di ricordi; ed anche di tormenti ancora vivi.
Le coppie si abbandonavano alla musica stringendosi sempre di più; accarezzate dalla tenue luce blu sparsa dalla sfera di cristallo che girava su in alto, cercavano, nel caldo contatto dei corpi , sensazioni a lungo sognate e , con esse, l’aggancio al futuro dopo anni di sopravvivenza alla giornata. Ma tutti ormai avvertivano che i loro sogni, più che una speranza , erano una nostalgia.
Cadde, lunga e strascicata come un singhiozzo represso, l’ultima nota… (chissà se lui ce l’aveva fatta a tornare- e lei ad aspettare- al vecchio mulino, sul vecchio fiume…) . Al chiaro della luce tornata vivida , le coppie si tenevano per mano come scolaretti colti in fallo.
In quei tempi del primo dopoguerra le balere spuntavano ovunque come funghi dopo l’acquazzone di settembre; era la vita che ricominciava per chi gli anni della giovinezza li aveva visti sfilacciare, lenti e tristi, come sabbia tra le dita delle mani e cercava di riagguantarli..; il ballo era immergersi in un sogno, dimenticare la realtà, ritrovare, nei momenti struggenti, la gioia intensa di stringersi e , con essa, l’estasi dei corpi che, dopo tanto tragico torpore, paiono esplodere…
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Al filo della pista da ballo dell’ENAL – circolo lavoratori
ronzonesi fondato da Uidin, dal Letu, dal Jin e dal Bigin Brucletta- rullava la
draga che aspirava dal Po sabbia e ghiaia
da cui scendevano rivoli limacciosi di acqua. Poco più in là ronfavano le
ciminiere della Piemontese, di Palli, della Milanese ed Azzi, di Bargero; era
un rumore che accompagnava la vita del Ronzone ventiquattro ore su ventiquattro
; faceva parte dell’ ambiente come il canto delle cicale, il cricchìo dei
grilli ed il gracidare delle rane; come dell’ambiente era parte la polvere
pungente che le ciminiere, rigorosamente senza filtri per risparmiare sul
combustibile, spargevano in abbondanza dando tono ed originalità al panorama ,
bianco dai campi ai tetti; tutto bianco: bianco di cemento e di amianto.
A poche decine di metri dall’Enal, i “Govoni”, i grossi
aspiratori che succhiavano polvere e filini di amianto dall’interno dell’
Eternit per volatilizzarli all’esterno ad uso di occhi, naso, gola, capelli ,
bocche e polmoni dei casalesi, rullavano e stridevano rumorosi.
Polvere di cemento e polvere di amianto pioveva fitta sul ballo inargentando
vestiti e capelli costringendo a tenere gli occhi chiusi.
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A ridosso della draga, sia a monte che a valle, c’erano le
discariche degli scarti di eternit
Ventiquattro ore su ventiquattro, il Pietro Lombardi , il Franco Fresc e Bel ed
il Carletto Levra (non ho mai saputo se era il suo cognome o lo stradinome per
via della passione per la caccia) facevano la spola con un Bremak a tre ruote
fra lo stabilimento di Via Oggero e le due discariche nelle quali noi ragazzini
guazzavamo di giorno alla ricerca di qualche scudlin di gazzose ed aranciate
con cui giocare al giro d’Italia sui marciapiedi del Ronzone. Milioni e milioni
di tonnellate di scarti di amianto sono state scaricate al in quella discarica
sulla riva destra del Po che per questo si è sempre più allontanata dagli
argini naturali favorendo alluvioni su alluvioni.
Poco più in su, all’altezza di Cavagnà dove ora c’è una discoteca, un torrente
scaricava nel Po acqua appesantita dall’amianto ; era il residuo della
lavorazione di tubi e lastre.
Quei residui formavano spiagge bianchissime , con piccole bulle nelle quali
guazzavano grossi pesci, incastrati ed esclusi dal fiume dalla poltiglia
viscida . Questi pesci erano facile preda dei pescatori che di pesce mangiavano
e campavano tenendo banchetto al mercato di piazza della Posta, o tentando di
venderlo, sistemandolo in ceste di vimini tenute fresche da foglie di fico,
passando in bicicletta casa per casa.
Era però una pesca a rischio perché quelle spiagge seducenti,
formavano pericolosissime sabbie mobili nelle quali si sprofondava in un amen (
essendo poi difficilissimo, se non si aveva avuto l’accortezza di legarsi a
qualcosa di ben fermo o se non c’era qualcuno che tendesse una mano o lanciasse
una corda) , tirarsi fuori .
Mentre il Vasin Sax e Clarin stava soffiando le ultime note e sul ballo le
coppie si trascinavano languide e strette preparando le giravolte finali,
qualcuno arrivò di corsa alla cassa, parlottò con il cassiere, poi il cassiere-
stralunato- con un altro; poi corremmo, anche noi bambini, tutti versò la
spiaggia di Cavagnà.
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Era successo che il Cichin Belcù ( era il nome che aveva
ereditato dal nonno il quale una sera , dopo aver fatto il gadan ballando con
la morosa del barbiere, era stato beccato- mentre tornava a casa- al bordo di
un campo di melica, immobilizzato e svestito; dopodichè gli dipinsero il sedere
con il minio e lo lasciarono patanin come un verme costringendolo a rincasare
nudo; passando quatto quatto, ma non invisibile, davanti al Betulin qualcuno
gli gridò : “Vuei che bel cu…”, e Belcù rimase per tutta la vita e per le
generazioni a venire…), si era addentrato con imprudenza fra la melma di
eternit per fare pesca abbondante con poca fatica, ed era rimasto incastrato.
Per orgoglio non aveva chiamato aiuto e più si dimenava per liberarsi più
sprofondava. Il Jin che era uscito dal ballo per fumarsi in pace il mezzo
toscano e far altro, si fermò di colpo sulla spiarda di Cavagnà: gli era parso
di vedere come un mulinello che si attorcigliava nella melma
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“Sarà un grossa carpa-aveva pensato- di lì non si tira più fuori..”.
“Più che una carpa è una balena per smuovere tutta quella pauta…” soggiunse fra sé e sé.
“Ma…- fu folgorato da un dubbio- ma…non può essere un pesce…lì c’è un cristiano….” Passava un uomo in bicicletta:
“Dite lì al ballo di correre qui che qualcuno sta per essere ingoiato dalla pauta dell’eternit…”, gridò mentre si precipitava giù dalla spiarda.
Poi vide galleggiare un berretto:
“Ma è del Belcù! -urlò-Tieni duro Belcù…tieni duro…”
Ma il Belcù era già sotto e solo qualche dita della mano ancora emergeva.
Il Jin recuperò un asse, lo buttò sulla melma e vi si sdraiò sopra; allungò il braccio e riuscì ad afferrare le dita del Belcù.
Intanto erano giunti i rinforzi. Il Letu trascinò una barca ormeggiata poco più sotto in un’ansa del Po e dopo averla fissata ad un albero con una grossa e lunga fune ed esservi salito sopra , la fece scivolare, facendo perno con il remo in uso sui barconi, sulla melma di amianto; legò quindi una corda al polso del Belcù che era ancora trattenuto dal Jin.
“Tirate!…”- urlò il Letu .
Da riva presero a tirare; la barca scivola lentamente sulla melma creando con la prua come un cordolo di fango; a volte pare incastrarsi ma il Letu con il remo allontana la poltiglia; poco per poco, con l’avanzare lento della barca , il mulinello di amianto che imprigiona il Belcù, si schiude, poi si apre; affiora il braccio, quindi i capelli, il capo, il viso la bocca …
“Dai che ce la fai Belcù…” gridavano dalla spiarda.
Fu trascinato a riva che pareva morto; gli tolsero, infilandogli letteralmente la mano nella bocca, un blocco lurido di fango che lo soffocava e si sentì un breve rantolo.
“Dai Belcù che ce la fai…”
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Lo coricarono, mettendogli come materasso la giacca di fustagno del Jin, sul triciclo dell’Ettore del Giardinet che a spron battuto , e pedalando alla Bartali, lo portò all’ospedale.
Dal ballo, giungevano fievoli le note di “Polvere di stelle” che la Gold Star del maestro Ferotti aveva appena intonato, per l’ennesima volta, “ a grande richiesta ”.
Sulla spiarda di Cavagnà già si avvertiva la rugiada; nel cielo l’afa si spandeva disegnando una striatura bianca, slavata. In fondo alla spiarda serpeggiava, seguendo le curve del Po, una lunga fila di pioppi; un leggero velo, un bianco vapore che i raggi della luna attraversavano ed inargentavano rendendolo splendente, rimaneva sospeso sulle rive avvolgendo il corso tortuoso dell’acqua come di ovatta lieve e trasparente. Dal ballo si sentì un lungo applauso e qualcuno chiese a gran voce il “bis”. La Gold Star riprese e dopo l’avvio del pianoforte, si alzò la voce di Natalino Otto: “In una polvere di stelle/ vedo te, dolce sogno del mio cuor/ Astro d’or, fulgido sei tu,/ bambina dagli occhioni blu /Io vorrei con te /stare ad occhi aperti per sognar./Ascoltami tesor,/io vivo sol per te, amor….”; le coppie strusciavano passi lenti, avvinghiate, guancia sulla guancia.
“Sono entrato all’ospedale- ricordava il Belcù- morto e sono uscito vivo, anche se …con una mano in meno; il cordino che mi ha salvato dalla pauta di eternit era così stretto che mi aveva tranciato il polso ed hanno dovuto amputarmelo. Si stava bene all’ospedale, da papi: minestra , pietanza con carotole e patate, frutta a mezzogiorno e sera; al mattino caffè e latte con due biscotti, a volte due e mezzo, del canarino…; mai stato così bene…anche se le suore- brave e gentili che mi trattavano come un duca- rompevano un po’ con il rosario…”.
Il Belcù si passava il moncherino sulla fronte ed esclamava acido e con gli occhi cupi: “Crepi l’Eternit e la sua maledetta polvere!…”.
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Il Belcù si salvò ma suo figlio Gigi, nel 1963, a trentadue anni, morì in due mesi per un accidente ai polmoni che non si sapeva bene cosa fosse; si era sposato da poco ed aveva appena aperta, era il sogno della sua vita, un’ officina per cicli e motocicli…